
Quale psicoterapia scegliere?
Una delle domande che più spesso mi viene rivolta da amici e pazienti è quale orientamento psicoterapico è quello "migliore". L'esperienza clinica mi ha fatto vedere con i miei occhi, vivere sulla mia pelle e convincere che, parlando delle scuole ufficialmente riconosciute e convalidate, non esiste una più efficiente delle altre. Credo che la differenza la faccia l'operatore e il suo modus operandi che a sua volta non possa prescindere da preparazione, esperienza e competenze.In questa riflessione, do ovviamente per scontata la professionalità intesa come nella sua più banale delle definizioni e che riguarda qualsiasi attività. Così come do per scontato un "approccio umano" quest'ultimo un po' più difficile da definire, ma almeno per quel che riguarda il lavoro psicoterapico, caratterizzato dal rispetto della persona e della sua individualità. Caratterizzato inoltre dalla sensibilità, a sua volta legata alla consapevolezza profonda che chi si rivolge a noi operatori della salute mentale, dovrà in qualche modo raccontare e affrontare tematiche personali e intime, spesso dolorose, anzi dolorosissime, avendo a che fare con "un perfetto sconosciuto". Tenere ben in mente che per chi si siede davanti a noi, soprattutto le prime volte, si tratti di un compito assai arduo lo ritengo fondamentale.Preparazione quindi, esperienza, competenze, professionalità, umanità, sensibilità che nulla hanno a che fare con l'orientamento che uno possa avere. Dando dunque per scontato tutto ciò e tornando al ruolo rilevante dell'operatore stesso nel buon esito di un percorso psicoterapico ci tengo a sottolineare l'importanza di un altro elemento chiave, forse quello più determinante. Mi riferisco alla relazione terapeutica che cercherò di spiegare rifacendomi a quello che Vittorio Guidano (uno dei padri fondatori del cognitivismo italiano) circa 30 anni fa definiva come il "paradosso o dilemma della psicoterapia". Vittorio Guidano si chiedeva come mai malgrado da un lato ci fosse una costante lotta fra diverse scuole terapeutiche per differenziarsi su un piano di modelli e fare a gara per dimostrare quale sia il modello migliore, il più scientifico e comprensivo, dall'altro lato ogni scuola aveva, più o meno, la stessa percentuale di remissioni o insuccessi. Spiegava questo apparente paradosso, dal fatto che indipendentemente dalle tecniche diverse, dalle diverse teorie che ogni approccio usava ci doveva essere per forza un processo comune di fondo, malgrado poi le differenze, sul piano teorico e tecnico, delle varie terapie.L'unico processo comune che riusciva a individuare era rappresentato dagli aspetti emotivi della relazione interpersonale fra paziente e terapista, indipendentemente dalle parole, dai concetti e dalle tecniche usate. Quello che importa, sosteneva, è che la relazione emotiva fra terapista e paziente permetta che i due si sintonizzino sulla stessa lunghezza d'onda, e grazie a questa lunghezza d'onda identica, ciò che dice il terapista possa avere effetto "di presa" sul paziente, indipendentemente dalla qualità di quello che dice*.
Ritengo doveroso concludere per completezza con una considerazione maturata negli anni dalla mia esperienza professionale come psichiatra. Sono profondamente convinto che non possa esistere un approccio farmacologico valido che non abbia una valenza psicoterapica. Spesso si tratta di un aspetto di supporto ma a volte possa diventare più articolato nonostante ci si concentri prevalentemente sull'aspetto farmacologico. Qualunque ne sia il carattere viene spontanea la riflessione che le stesse asserzioni relative alla psicoterapia sono parimenti valide per qualsiasi richiesta in cui si opta per un trattamento farmacologico.
* Da "Vittorio F. Guidano. La psicoterapia fra arte e scienza". A cura di Giovanni Cutolo. FrancoAngeli, Milano 2008.